romanzo eterobiografico di B. Arlotti
edizione critica (Lipsia, Raspannini, 1429)
-Basta !- disse l'oppressore.
Ma ormai era troppo tardi. La vigna era già nera, il cielo cupo, e la volta celeste si tingeva di un lieve color caramella con radi guizzi di gallina.
Paola guardò sospirando: un lieve soffuso tepore le strinse la teiera, e si rese conto che il tavolo aveva preso acqua. Con un fiammifero spense l'alluvione, che avrebbe potuto degenerare invadendo i cieli non più puri per scendere a un mondo desolato.
Addio, addio: chi ti conosce può solo piangere, e la voce che odi è pura tradizione. Ove più? Franco aveva comprato un nuovo paio di forbici, e la tela dipinta non sosteneva che l'immane sforzo debolmente intristito.
Morte? Si voltò lentamente: il cielo, la stanza, la luce non erano più. Cavolo! E, lontano, lontano una voce rispose: cipolla!
La tenebra incupiva il sole già polveroso, nemmeno un cane riusciva a confortare l'animo verde pisello.
Laura pianse sommessamente: la vittoria mai dimenticata aveva prodotto solo detersivi non biodegradabili. Udendo la voce, le svenne il piede torturato, bruciante di poderose immani fresche e dolci acquatiche ninfee. Deh! No, no, no, sì, ancora mai potendo tradire la volontà non sapeva morire imbiancando tragicamente un velato quasi.
I cadaveri fumanti rosolavano lentamente sul girarrosto. John impugnò forchetta e coltello e si precipitò sull'antipasto. "Calma! -gli fece notare Paul- c'è una dignità anche per noi avvoltoi." E decisero di attendere il suono della campana che ogni mese rintoccava a Napoli. Anche Gennarino si svegliò, e sbadigliando distrusse i sogni aprendosi alla vita. La scatola di cerini non aveva preso acqua, né fuoco, né vino, ma non si accendevano. Eppure anche il Vesuvio non fumava ormai da anni. Che sforzo sovrumano! Ma la torre di Pisa NON DOVEVA cadere.
Veh! Ancora, mai più, son dolcemente tristi le calde ansiose notti pallide ovunque senza speranza. Perché mai la polvere sulle ali degli industriali?
Trionfa ancora la povera gentilezza incommensurabilmente media.
Pioveva senza sosta sul fondale marino. I pesci, privi di ombrello, cercavano disperatamente un rifugio per non bagnarsi. Fu la murena a dare l'allarme: questa è un'alluvione! Il livello dell'acqua cresceva sempre più, sembrava ormai la fine, pescecani e gamberi giacevano annegati uno accanto all'altro, l'onda gigantesca si abbatté sul tutto con un immane panino al prosciutto in una mano e un bicchiere di aranciata nell'altra.
Tutti respirarono sollevati: a tal punto che per poco non finivano sulla luna. Ma ormai non si poteva più tornare indietro; vagavano nello spazio, disgustati oltretutto da quel puzzo d'etere solforico che riempiva l'universo.
Come era possibile raggiungere un posto abitato dove le polveri bruciate rompessero i timpani dell'osservazione inviolata? Il raggio catodico trionfava ancora. Ma più beata, che in un temporale Serbi e Croati valsero ovunque contemporanei indicibilmente soffrendo.
Insieme, piansero silenziosamente, facendo un tal rumore che l'intero vicinato si svegliò, nonostante fosse mezzogiorno passato.
I riflessi di luce facevano sulle pareti uno strano gioco, come un incrocio fra briscola e scopone. Ma d'improvviso si udì una voce: -Baro!
"No, no, ben più nobile è il mio sangue!": e la poesia di queste parole gracchiava tra i pallidi volti nel campo arato di stantìo. Era sempre lì, mai si muoveva levando soave il piede aereo dal suolo polveroso. Parlava? Il barone se lo chiese pensoso, e stava per domandarglielo quando l'improvvisa folla acquartieratasi ovunque rese il voto di sempre.
Ah, perché? Verrà mai un giorno di sole in cui le nuvole risplendano di rubini, rubinetti, acquai e lavandini?
Passarono diversi anni, in cui la vita continuò a scorrere col
ritmo usuale. Ma una notte, mentre la luna nuova proiettava tristi
ombre pensose sulla campagna assolata, i cani del cascinale presero
ad abbaiare furiosi.
John si precipitò ad aprire. E rimase folgorato da ciò che
sua nonna Carolina aveva visto leggendo il numero di quel mese di
"Grand Hotel": ancora una volta dovette arrendersi.
E la verità si fece strada tra la folla premente da ogni parte.
Mostruosa nel vasto chiudersi, la luna tendeva lampi oceanografici:
e le stelle -oh, le stelle! Che brillano come gli occhi appena aperti
di un bimbo di tre anni vestito di un pigiamino blu e nato a Patavecchia
inferiore in quell'alba brumosa- le stelle sembravano invitare al dolore,
al pensiero, alla meditazione.
"Non era logico ridurre tutto ad irrealtà effettuale: eppure
non fu così. La mia triste certezza si tramutò in ansia soave,
e la gara di corsa fu un'aerea doccia. Il giorno apparve benigno, con molti
gravi presagi: ma me ne preoccupai alquanto, spargendo radi sorrisi."
Il corso di questi pensieri fu interrotto da uno scroscio di neve:
istintivamente John allungò una mano, ed ebbe subito la certezza
che la regolazione termica del vapor d'acqua non poteva che aver risentito
della più recente soluzione al solfuro di cadmio. Invano più
soltanto nel vacuo sogno d'un mondo perduto, ora non sempre volando
leggeri nell'aere sublime, mai sollevando dolori tra opache cortine,
quando si strugge la vita nel mare d'un verde grigiastro, momentanei,
continui, radi, tardi, violenti, splendenti nel sole tramonti d'un verde
violetto, pensando alla morte la vita trascorre nel sogno.
E il ritorno non fu migliore: vaghi si persero nel teso gioire d'un parco
violento. Fu la fine, e infatti cominciò quasi subito; ancora le
gardenie in un tramonto albale.
Si fronteggiavano scambiandosi fieri carciofini. La tensione del momento
opprimeva il loro volto, né sembrava che le uova fossero di giornata:
guardavano avanti, el'altro non sopportava più l'effetto Doppler,
si voltavano insieme, e d'un colpo, ma ormai non era che un grido solo,
niente più di un'orchestra senza suoni, come un fragore assordante
di tamburi.
Cadde il silenzio, e il colpo si udì fin sulla strada: come accorse,
Franco si premurò di informarsi se si fosse fatto bene; poi
tornò a Giulia.
La guardò, e una luce fulgida come le carotine in umido lo
colpì. Rimase intasato: una bellezza simile l'aveva vista solo sul
proprio volto, e si era sempre ritenuto troppo modesto per non vantarsene.
I loro sguardi si mossero, si cercarono, si sarebbero perfino incontrati se
non fossero stati distratti da un lucente piatto di pollo arrosto con
calzini fritti. Ma, terminato il pasto, Franco pensò di rinunciare
alla frutta e prendere Giulia. Le affettò una mano, e le
sussurrò dolcemente in un capello:
"L'amore, bellozza mia, come un furmine ardente mi consuma:
spasimi fremono nel mio cuore come cavalli scalpitanti nelle verdi
praterie del Mexico, là dove il confine è lontano e la Cina
è vicina, mentre gli occhi son fisi nel tuo volto (e precisamente
nel terzo neo a sinistra in basso a partire dal sopracciglio superiore
destro). Nel ch'io ti vedo il sangue bolle, l'ossigeno che respiro si
condensa, il fegato si liquefà e la linfa, oh, la linfa si
solidizza..."
"SUMERO! Si dice <solidifica>!"
L'incanto svanì. Giulia si dissolse come patate fritte al sole,
e la triste e dura realtà di ogni giorno si presentò
salutando: "Piacere, triste e dura realtà di ogni
giorno." "Piacere, Franco Gardenia."
Sì, era andata, era andata: Franco si morse una mano ed
esclamò: "Cavolo!". E, lontano, lontano una voce
rispose: "Mi dispiace, le cipolle sono finite, va bene
un radicchietto?"
-Basta !- ripeté l'oppressore.
Ma era ancora troppo presto. Calava già l'aurora sul paese, e il
sole pioveva a larghe falde nell'oscurità della notte: ancora
un'ora, e l'incanto sarebbe svenuto per sempre.
Mario era pensoso, in riva all'onda tumultuosa: veramente, uccidere poteva
svelarlo, ma un sopruso diveniva inevitabile. E pianse anche per lei.
Forse non molto era cambiato: il crepuscolo colorava ancora di rosa le
rocce spumeggianti condite al limone, e quando il sussurro più
dolce cadeva nel vuoto le molle del divano contribuivano alla cottura.
Eppure... si voltò; si alzò, si diresse furente verso la
porta, la chiuse, l'aprì, le disse: "Non più!".
Com'era vero, quanto, quanto aveva sofferto ancor più, ma sempre
meno, quando allume di candela poteva chiamarsi Filippo!
Non aveva più lacrime.
Ancora poche volte
il villaggio nella foresta
visse ore d'ansia.
Ma l'ora fatale
si avvicinava sempre più:
e venne.
Domani, sulle macerie assetate di sangue,
sventolerà
un vessillo silenzioso.